La presenza ebraica a San Vito al Tagliamento
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Per quanto è dato sapere la presenza ebraica a San Vito risale a circa la metà del XVI secolo. Gli ebrei vi giungono, come era accaduto a Portogruaro, provenienti probabilmente da Venezia, per il favore loro accordato dal patriarca di Aquileia, signore del luogo e dall’autorità comunale.
Essi corrispondono inizialmente a uno o due nuclei familiari che si sostentano svolgendo attività artigianali ed esercitando il prestito di denaro. Questa seconda attività soccorreva le esigenze di credito degli abitanti di San Vito, che altrimenti dovevano far ricorso ai prestiti soggiacendo altrove a tassi di usura non calmierati e particolarmente onerosi.
Allora le comunità ebraiche presenti nel territorio per la sepoltura dei defunti facevano riferimento al cimitero situato al Lido di Venezia. È nel corso del secolo successivo che gli ebrei di Portogruaro si dotano di un’area cimiteriale situata nel borgo in cui era posta la chiesa duecentesca di San Francesco, antecedentemente denominato Borgo San Gottardo. È qui che seppelliscono i loro morti anche gli abitanti ebraici di San Vito. Ma le dimensioni dell’area a disposizione non ne consentono un uso illimitato nel tempo.
È così che il 1687 tale Leon Romanin, medico, fa istanza presso il Consiglio della Magnifica Comunità di San Vito per ottenere la concessione di un luogo dove inumare i defunti situato nelle pertinenze del Bosco della Man di Ferro, selva di proprietà comunale e antecedentemente di uso collettivo, che egli aveva allora in affitto. Confidando nella benevolenza delle autorità di San Vito, egli rivolge loro una supplica: si appella alla “pietas” di “gente christiana cattolica” che professava “d’esercitare la pietà e la carità”.
Il luogo, discosto dall’abitato di San Vito, era situato nell’ambito territoriale denominato nella topografia dell”800 col toponimo Boscato, che ne qualificava lo stato naturale di zona in cui sussistevano vaste aree boschive, intercalate ad altre messe a coltura dopo l’alienazione, avvenuta nel momento storico precedente per imposizione del governo veneto, di parte delle proprietà comunali. In questo settore del territorio alcune suddivisioni catastali della proprietà pubblica componevano insieme il cosiddetto “Bosco di San Vito”, comprensorio boschivo che si estendeva dall’estremità nordorientale, rappresentata dal Bosco della Man di Ferro, in direzione dell’attuale lembo boschivo superstite situato a nord di località Le Torrate.
Si giungeva nel sito percorrendo un tratto dell’antica viabilità storica, l’originaria Strada Regia, denominata in seguito “Fossera”, ma che allora era indicata con l’appellativo generico di “Vial”. Essa metteva in comunicazione il centro abitato di San Vito con Taiedo, che fu epicentro un tempo degli interessi feudali di un ramo familiare degli Altan e da dove era possibile proseguire, incrociando la strada proveniente da Le Torrate, alias Castel di Sbroiavacca, per Frattina e in direzione del Trevigiano. Tale tracciato, esistente ancor oggi e comodamente transitabile su sterrato dalla località Torricella almeno fino alla casa colonica Boscato, subisce dopo il ponte sull’acqua detta “Il Prodolon” una biforcazione che si dirama in direzione del cimitero. La deviazione è indicata nelle mappe storiche antecedenti anch’essa come “Vial” o altrimenti nel catasto napoleonico come “strada detta Cocuba”.
Si dovette però attendere probabilmente il 1765, allorché il sito fu acquistato a nome dell'”Università degli ebrei” di San Vito da Shemuel Romanin, perché essi potessero godere pienamente della facoltà di seppellire i loro morti nel luogo prescelto. E’ in questo periodo che la piccola comunità ebraica può contare sulla presenza in loco di sei famiglie prima dello sfaldamento di esse e del nucleo sociale per la migrazione altrove dei loro componenti dopo la fine della Repubblica di Venezia sancita dal trattato di Campoformio.
Data al 1798 l’unica testimonianza lapidaria presente nel territorio, verosimilmente traslata da qui e murata capovolta sul lato esterno del muro perimetrale di un fabbricato rurale situato a Savorgnano.
Tale monumento epigrafico tradotto recita:
“Lapide del sepolto, il sapiente medico / Shemuel ben Iudah Romanin / che è stato chiamato ai cieli di sopra / il sesto giorno del mese marheswan per brillare / come una luce vivente, nell’anno 5559. / La sua anima sia legata nel fascio dei viventi. Lasciò in vita noi e tutto Israele”.
Il defunto Shemuel Romanin, in vita, addottoratosi a Padova, esercitò la professione di medico, unico sbocco professionale dottorale che era concesso agli ebrei, guadagnandosi benemerenze nei confronti della comunità. Dai Provveditori alla Sanità di Venezia gli venne concessa nel 1758 la licenza di praticare la chirurgia, allora competenza disgiunta dalla professione medica, professione che allora affondava le radici in un corpus disciplinare che faceva affidamento su embrionali nozioni scientifiche filtrate attraverso una consolidata tradizione culturale di matrice antropologico-umanistica.
È in quegli anni che Leon figlio di Shemuel cederà i beni di famiglia alla Congregazione di San Filippo Neri di Venezia, ma evidentemente con esclusione dell’area del cimitero se nel catasto napoleonico risulta ancora nel 1810 di proprietà di Leon Romanin e dei suoi fratelli, figli del defunto Shemuel.
Una mappa dei beni comunali, databile intorno al 1826-27, riporta nella parcellizzazione del Bosco della Man di Ferro come ancora presente la particella indicata quale Cimitero degli Ebrei. Tali beni, acquisiti nel 1851 da Vittorio Vial, confluiranno poi per trasmissione ereditaria nel patrimonio agrario di Lucia Falcon Vial, dal cui lascito testamentario prenderà corpo l’opera assistenziale che in seguito diverrà l’Istituto Agrario Falcon Vial.
È cronaca dei nostri tempi l’istituzione dell’ente patrimoniale di interesse pubblico, oggi confluito nell’omonima Fondazione Falcon Vial-Fabrici-Morassutti, la cui amministrazione, all’origine delle vicende recenti, nel 1985 attuò la decisione di mettere in vendita la proprietà fondiaria di pertinenza della settecentesca casa colonica che fu dei Padri Filippini, inclusiva della piccola area di culto.
L’acquisizione da parte della provincia di Pordenone degli appezzamenti di terreno che componevano l’area di riqualificazione naturalistico-ambientale istituita per interessamento di un comitato di cittadini, sorto ad hoc in quella circostanza e divenuto oggi l’Organizzazione di Volontariato denominata Bosco della Man di Ferro, concretizza una tutela del luogo che è ancora attiva nonostante le recenti vicende legate al trasferimento della proprietà pubblica.
Gianfranco Bertani